mercoledì 16 aprile 2008

L’ombra scura del solare cinese

LIVORNO. Un articolo del Washington Post indaga sul boom delle fabbriche di pannelli solari in Cina e evidenzia che l’industria verde della Cina rossa ha un lato molto scuro. Molti dei pannelli fotovoltaici cinesi che sui tetti europei ed americani producono energia pulita hanno lasciato in Cina una scia di sostanze tossiche. Il Washington Post accusa il più grande produttore di pannelli solari cinese Luoyang Zhonggui, di inquinare pesantemente con rifiuti tossici prodotti dalle sue fabbriche le campagne, avvelenando colture e popolazioni rurali. Anche le altre fabbriche cinesi di polisilicio, il componente chiave dei pannelli fotovoltaici, hanno problemi simili, soprattutto perché non hanno installato impianti per l’abbattimento delle sostanze inquinanti o non utilizzano questi sistemi a piena capacità operativa.

Secondo il rapporto “ Powering China’s Development: The Role of Renewable Energy” del Worldwatch Institute la Cina è diventata il leader mondiale nelle produzione di fotovoltaico, passando da una capacità di produzione di 350 megawatts nel 2005 ad oltre 1.000 MW nel 2006, ed a 1.500 MW stimati nel 2007. La Cina ha saputo sviluppare in soli 5 anni, partendo praticamente da zero, una industria del fotovoltaico di alto profilo, con un giro di affari di miliardi di dollari, ma di questa produzione destinata all’energia pulita in Cina resta pochissimo: il 90% della produzione di pannelli fotovoltaici made in China finiscono in Europa, Usa e Giappone.

Naturalmente il problema non è il fotovoltaico in sé, esistono le tecnologie per riciclare i sottoprodotti chimici della produzione di celle solari, ma la Luoyang Zhonggui ed altre fabbriche cinesi sono più preoccupate di tagliare i costi che di ridurre l’inquinamento, insomma si esportano le energie pulite all’estero e non si usano le tecnologie pulite in patria. I costi ambientali non sono ancora compresi nel listino prezzi del fotovoltaico cinese, quel che conta è l’espansione commerciale nel resto del mondo, specialmente nei Paesi sviluppati che possono permettersene i costi.

«Anche se la Cina potrà beneficiare di questa tecnologia verde, così come dell’ulteriore calo dei costi – spiega Yingling Liu, responsabile del China Program del Worldwatch Institute – per il momento l’industria continua a fare da battistrada nel tradizionale percorso “prima inquinare e poi ripulire”. La posta in gioco sono i gruppi sottorappresentati della società cinese, in particolare i contadini rurali che dipendono sempre più da terre inquinate per sopravvivere. La luminosa industria solare della Cina, pur promettendo altrove un cielo blu, sta lasciando dietro di se una pesante scia sul paesaggio di casa propria».

Insomma, i cinesi fanno quello che americani ed europei hanno fatto per due secoli (e non hanno ancora smesso) con le loro industrie prima di capire che non andava bene. L’ambiente continua ad ancora ad essere il maggior perdente della rapida crescita cinese e il Washington Post ha gioco facile nell’ironizzare sul fatto che l’ambiente non è preso sul serio nemmeno dalle industrie cinesi con l’etichetta “green” e che sfornano prodotti per migliorare l’ambiente. «Le Cina - dice Yingling Liu – diventa sempre più industrializzata e cerca di soddisfare le esigenze di una nascente ed insaziabile borghesia urbana, non c’è motivo di discutere per quanto l’attuale stato di cose potrà durare e di quanto tempo ci vorrà davvero prima che le imprese si prendano abbastanza cura dei loro impatti e proteggano davvero l’ambiente».

Fonte: http://www.greenreport.it/contenuti/leggi.php?id_cont=12521

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